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SERVIZIO STUDI BNL | L’Italia della digitalizzazione e della conoscenza indietro in Europa

22 novembre 2021

Ascolta il podcast di Simona Costagli, Economist del Servizio Studi

I fondi del PNRR per la transizione digitale: un’occasione per recuperare i ritardi accumulati

L’epidemia di Sars-Cov 19 che ha colpito il pianeta da inizio 2020 ha provocato in Italia uno tra i cali più marcati a livello mondiale del Pil reale e non tanto (e non solo) per il violento impatto del virus a livello sanitario, quanto perché ha trovato un paese con numerosi problemi strutturali che hanno radici lontane nel tempo.

Tra le cause del deludente andamento della produttività c’è una scarsa capacità di cogliere le opportunità legate all’innovazione, e più in particolare ai nuovi strumenti digitali. L’importanza di questi ultimi nel favorire la crescita è testimoniata dall’attenzione posta al tema dalla Commissione Europea, che ha stabilito che nell’ambito dei vari programmi nazionali gli stati membri, tra il 2021 e il 2026, dovranno destinare a investimenti per la digitalizzazione almeno il 20% degli 806 miliardi di euro di sovvenzioni e crediti del Programma Next Generation EU (NGEU).

L’Italia, che del NGEU è insieme alla Spagna il principale beneficiario, ha superato questa soglia destinando a progetti di digitalizzazione circa il 27% dei 235 miliardi di risorse comprese nel Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza e nei fondi React-Eu. Nei fondi sono incluse anche le azioni in cui le tecnologie ICT sono rilevanti per lo sviluppo di altre missioni del PNRR (come la transizione ecologica, la creazione di infrastrutture per una mobilità sostenibile, l’istruzione e la ricerca, l’inclusione e coesione e la salute). I fondi del PNRR sono un’occasione senza precedenti per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato rispetto ai principali paesi della Ue-27 sia nell’adozione di infrastrutture ICT, sia soprattutto nella disponibilità e nell’impiego di risorse umane con competenze adeguate al loro uso, ritardo ben sintetizzato dalla quart’ultima posizione che il nostro paese occupa in Europa nella graduatoria del Digital Economy and Society Index, seguita solo da Romania, Grecia e Bulgaria.

Il digitale e il sistema produttivo italiano

Le imprese italiane nel corso degli ultimi dieci anni hanno recuperato quasi interamente il divario nella digitalizzazione elementare di base (ossia uso di computer connessi da parte degli addetti). Secondo l’Istat, tra il 2016 e il 2018 (ultimo dato disponibile) circa il 75% delle imprese con oltre 10 addetti ha effettuato investimenti in infrastrutture digitali. Il valore è la sintesi di andamenti molto diversi tra piccole imprese (10-19 addetti), dove si supera di poco il 73,2%, e imprese con più di 500 addetti, che dichiarano di aver effettuato investimenti digitali nel 97% circa dei casi.

Sia le grandi sia le piccole unità produttive dichiarano di aver adottato un numero limitato di tecnologie, con una priorità data a investimenti infrastrutturali (come soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e cyber- security). Molto più bassa (16,6%) è la quota di quelle che ha adottato almeno una tecnologia più avanzata (Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D). Peraltro, nel 2020 solo il 7% delle imprese con oltre 10 addetti in Italia effettuava analisi con i Big Data generati internamente per ottenere informazioni utili alla propria attività, una percentuale simile a quella delle imprese spagnole ma molto più bassa di quelle tedesche (17%) e
soprattutto francesi (28%).

Il peso dei settori high-tech e a elevata conoscenza in Italia

Al di là del tema specifico della digitalizzazione, il nostro paese presenta limiti strutturali nei settori a elevata conoscenza. Gli ultimi dati disponibili (riferiti al 2018) mostrano che in Italia le imprese nei settori manifatturieri ad alta intensità tecnologica rappresentano appena lo 0,1% del totale, un valore in linea con il dato francese ma più basso di quello tedesco, pari a 0,3%. Nel nostro paese queste imprese realizzano il 2,7 del valore aggiunto del sistema produttivo, un valore superiore a quello spagnolo (1,8%) ma inferiore a quello tedesco (3,6%) e soprattutto a quello francese (4,7%). Peraltro le imprese ad elevata intensità tecnologica in Italia sono mediamente più piccole di quelle
dei principali partner europei: 37,6 addetti contro i 124 delle francesi e i 74,5 della Germania.

L’Italia indietro nella capacità di assorbimento dell’innovazione

Oltre alla dotazione infrastrutturale, la trasformazione digitale è favorita dalla capacità di assorbimento (absortive capacity) di ogni singolo paese, ossia della capacità di fare un uso effettivo della conoscenza tecnologica. Un indicatore basato su investimenti in R&S e pubblicazioni scientifiche colloca l’Italia in terza posizione nella Ue-27 per capacità di assorbimento, anche se con un notevole ritardo rispetto ai valori di Francia e Germania. Il valore italiano è sostenuto soprattutto dalla produzione scientifica, mentre rimangono bassi gli investimenti in R&S che nel triennio considerato sono rimasti intorno all’1,4% del Pil, contro il 2,2% di Francia e Paesi Bassi e il 3% circa di Germania, Austria e Finlandia.

Il ruolo del capitale umano

Un ultimo tassello, in questo complesso quadro, è il livello di istruzione della
popolazione e più in particolare della forza lavoro. Molte indagini empiriche mostrano come nelle imprese con forza lavoro mediamente meno istruita l’adozione di nuove tecnologie risulti più bassa che in imprese con forza lavoro più istruita, a parità di ogni altra condizione, inclusa la dimensione e il livello di istruzione e qualifiche dei manager.
In Italia nel 2020 meno del 40% degli occupati in professioni ICT disponeva di una formazione universitaria, contro il 66% della media Ue27.

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